Sono arrivato per la prima volta al numero civico 28 della Thaon nel 1955, a fine maggio, quando la mia famiglia vi si trasferisce come domicilio e come luogo dì lavoro. Avevo sei mesi quando cominciai a vivere in questo palazzo e, a parte due anni vissuti altrove, posso dire di averci abitato tutta la vita.
Dobbiamo sapere, prima di vedere cos’era vivere in una casa di ringhiera quasi settant’anni fa, che ogni isolato all’Isola, conformemente al Piano Beruto, misurava all’incirca 120 x 100 m; erano suddivisi in lotti che potevano variare dai 500 ai 2000 m2 ed erano caratterizzati da ripartizioni ortogonali. Il piano terreno era occupato da negozi o botteghe artigiane sul fronte strada e magazzini o attività produttive di maggiori dimensioni verso le corti interne, mentre i piani superiori destinati alle abitazioni erano del tipo a pianerottolo o, più spesso, a ballatoio (ringhiera appunto).
Il tipo di distribuzione differenziava le abitazioni in base alle destinazioni: il ballatoio era riservato alle abitazioni operaie e distribuiva piccoli locali, generalmente ad altissima densità abitativa; il pianerottolo connotava spazi studiati per il ceto medio, spesso dotati di servizi igienici privati e con dimensioni dai due ai quattro locali.
Le case di ringhiera a Milano sono una istituzione, è una tipologia di edilizia popolare che prevede la compresenza, su ciascun piano di un edificio, di più appartamenti che condividono il medesimo ballatoio o balcone. Tale ballatoio, che corre per l’intera lunghezza dell’edificio, tipicamente funge da via di accesso alle singole unità immobiliari ed è in genere destinato ad un uso promiscuo da parte di tutti i condomini. Altrettanto promiscuo è l’uso del cortile interno, nel quale un tempo erano presenti gli unici servizi igienici dell’edificio.
Le case di ringhiera, di solito a non più di tre piani, sono particolarmente diffuse nell’Ottocento nei casamenti popolari e da reddito, con particolare incidenza a Milano e Torino, e negli anni dell’immigrazione interna conseguenti al boom economico ha costituito in molti casi la prima sistemazione abitativa per i nuovi immigrati giunti nelle metropoli del Nord.
Negli anni ‘50, il caseggiato della Thaon di Revel al 28 ospitava circa 36 “appartamenti” disposti su tre piani, di norma composti di due spazi abitativi quadrati, uno predisposto a cucina e l’altro a camera da letto, di 32 metri quadri totali abitabili (roba da giapponesi) e un piccolo “bagno” con una tazza e un micro lavandino (chi lo aveva).
Ogni appartamento era di regola occupato da una famiglia, spesso con uno o più figli, agli inizi degli anni ‘60 si contavano 15 bambini compresi tra i tre e quindici anni.
Per tutta la mia infanzia il caseggiato fu un vero e proprio paese, o meglio una cascina di paese, del resto proprio a pochi metri da noi sopravvisse fino alla fine degli anni sessanta una cascina detta dei Bianchi, abitata da famiglie davvero in povertà, spazzata via per far posto a caseggiati di pregio e alla prima speculazione degli anni del boom economico.
In questa sorta di mondo a se stante le famiglie, per la maggiorparte operaie, vivevano in simbiosi aiutandosi reciprocamente, ma mantenendo scrupolosamente le distanze. Certo è che in tutti gli anni della mia infanzia non mancò mai la solidarietà tra vicini, ne un piatto di pasta o una fetta di torta condivisa tra ragazzini.
All’epoca era d’uso la terza persona tra gli adulti e quella che oggi chiameremmo privacy era regolata dal “quieto vivere” degli abitanti del palazzo e si rispettavano le regole in condizioni non sempre facili.
L’immondizia (ruff), ad esempio, fino a metà anni ‘60 era raccolta in un locale in cantina (ruera), il che naturalmente non faceva di quell’ambiente il più salubre del mondo.
Nel 1965 venne ristrutturato tutto l’interno del palazzo, fu fatto davvero un lavoro terribile come si usava in quegli anni. Vennero demoliti i piccoli lavatoi nel cortile dove io andavo a giocare al dottore con la mia amica Patrizia, senza sistemare il muro a cui erano appoggiati, venne rifatto il pavimento del cortile senza rimetterlo in piano e senza mettere in ordine gli scarichi dell’acqua, vennero chiuse le canne di scarico dei rifiuti in ogni ballatoio e posizionati i bidoni di metallo in cortile, vennero riverniciate le pareti interne del palazzo di un color grigio topo e bianco sporco, e tutto questo per noi ragazzini si trasformò in orari fissi per l’uso del cortile, dalle 16 alle 18 e nel divieto assoluto di giocare a pallone.
Gli astuti amministratori decisero di far tagliare a filo terra il glicine che si arrampicava per tre piani e su tutta la ringhiera del fronte est della casa. Noi ragazzi di varie età, che componevamo la gioventù di quel palazzo ne soffrimmo molto, tanto che per ritorsione tirammo due pallonate contro in muro ovest appena pitturato di bianco lasciando due impronte schifosissime, cancellate solo dopo vent’anni circa.
Si sa che il destino è dalla parte dei più deboli e il glicine rispuntò, risali duramente fino al primo piano arrampicandosi poi per le ringhiere e fiorendo miracolosamente l’anno dopo.
Solo quando si eliminarono dal cortile i vecchi lavatoi si potè predisporre una più sana raccolta dei rifiuti in bidoni di ferro che venivano scaricati ogni due giorni da uomini nerboruti negli antichi camion della nettezza urbana. Non posso dimenticare il rumore che facevano alle sei del mattino i bidoni caricati sui carrelli da netturbini (el ruee) mentre intonavano a squarciagola canzoncine in voga.
Dopo solo due anni dalla riverniciatura la casa si presentava davvero ancora sporchina, (la facciata esterna non è mai stata toccata dalla nascita nel 1900), la scelta del colore bianco si rivelò un decisione pessima per quell’epoca in cui tutti gli appartamenti erano riscaldati da stufe a carbone, le pareti erano tornate del color grigio che conoscevamo prima, e l’effetto nell’insieme era molto triste.
Sempre in quegli anni gli inquilini, a spese loro notare, si costruirono dei bagni con doccia, si usarono soluzioni delle più disparate con piatti doccia a scomparsa, tende metti e togli, e apparvero i primi scalda acqua a gas, fin ad allora lavarsi al mattino con l’acqua fredda era piacevole in estate, ma terribile d’inverno, mi ricordo ancora i grandi pentoloni d’acqua messi a bollire da mia madre per lavarci a pezzi.
Intorno alla fine agli anni ‘60 apparvero le prime stufe a cherosene che scaldavano meglio di quelle a carbone, sporcavano meno, ma puzzavano decisamente di più, solo a ridosso degli anni ‘80 si introdussero le più efficienti stufe a gas e poi le caldaie murarie che si usano ancora oggi.
Non so se con l’età tendo a ingrandire le cose o i ricordi si fanno più appannati, ma di certo so che gli inverni un tempo erano davvero più rigidi.
Negli anni che frequentai le elementari ritornavo a casa al pomeriggio tardi e ricordo che il mio passatempo preferito era appoggiare il naso al vetro della finestra che dava sulla strada e cercare d’individuare qualcosa della facciata della casa di fronte, senza riuscirci, la scighera (nebbia) era davvero fitta e il freddo si faceva sentire di notte.
La mia famiglia era composta da padre, madre e due figli e vivevamo in una stanza da letto con un matrimoniale e un letto a castello, un armadio, una libreria (che fortuna) uno specchio grande e due cassettiere.
La saletta-cucina contava un tavolo in marmo bianco, quattro sedie, una dispensa, due fornelli e un frigorifero (un lusso).
Visto con gli occhi di oggi non avevamo davvero molto ma eravamo felici, mio fratello trovò casa sua a diciotto anni quando cominciò a lavorare come insegnante e tre anni dopo si ritrasferì ancora in affitto nel nostro palazzo in un altro appartamentino di 32 metri quadri.
Andai a vivere con lui, avevo quindici anni e l’anno dopo, quando lui si trasferì di nuovo, io cominciai a vivere da solo, a lavorare con la famiglia e a rendermi indipendente.
Altri anni, altre storie che oggi sembrano tanto lontane.
Allego alcune foto della mia infanzia nel caseggiato e una del glicine com’è tornato ora.
di Pierluigi Nava