L’Isola non è più un’isola. Dopo l’inaugurazione della nuova piazza Gae Aulenti il 7 dicembre scorso e del percorso pedonale che, costeggiando il futuro parco, la collega a via De Castillia, il nostro quartiere rompe definitivamente il suo storico isolamento dal resto della città. Che lo si volesse o meno, Porta Nuova è diventata realtà.
E fa davvero effetto percorrere questo breve viale che dalle nostre amate case di ringhiera scaraventa direttamente sul Podio e da lì su Corso Como. Il contrasto è potente, e per quanto le torri di Isola Lunetta ci avessero preparati da tempo all’impatto, l’emozione è forte. Almeno lo è stata per noi.
Può piacere o non piacere la nuova piazza, con le sue architetture verticali, le fontane a sfioro e gli eleganti rivestimenti di ardesia grigia. Bella senz’anima la definiremmo noi, innestata da chi sa dove senza nessuna connessione con il tessuto urbano milanese. Ma non è questo il punto.
Da Mumbai a Dubai, è stato definito il contrasto tra questo vecchio quartiere di Milano, con le sue case di ringhiera un po’ sgangherate, il liberty di alcuni suoi eleganti palazzi di inizio Novecento, la vita quasi paesana che vi si conduce tra le sue quattro vie dove spesso ci si conosce e ci si riconosce per strada, e i grattacieli freddi di una piazza a forte vocazione commerciale e di rappresentanza. E il dramma dell’Isola è tutto qui, il restare in bilico tra la voglia di ricongiungersi alla città al di là del ponte, rimasta a lungo negata, e il timore che il quartiere diventi a sua volta terra di colonizzazione della metropoli che avanza, perdendo irrimediabilmente la sua identità.
E’ la stessa tensione che si ravvisa nella scelta del luogo per il futuro centro civico: inserirlo proprio lì, nel cuore di Porta Nuova, per appropiarsi del parco e farne davvero un luogo fruibile dalla gente che ci vive ai bordi, o ripiegare su una collocazione più interna al quartiere storico, puntanto ancora una volta sulla capacità dei cittadini di collaborare nel prendersi cura di uno spazio partecipato e a misura d’uomo, cercando di mantenere quella linea di confine, sempre più sottile, tra “noi” e “loro”.
Ma è davvero possibile opporsi in maniera efficace alla gentrificazione, ovvero a quel processo per cui i decadenti quartieri operai del centro vengono recuperati attraverso un flusso di capitale privato e destinati all’insediamento di un nuovo tipo di inquilini upper class, con la conseguente espulsione degli abitanti originari? La resistenza vista dal Podio appare davvero disperata oramai. Forse l’unica soluzione è che il quartiere faccia uno sforzo per reinventare se stesso, evitando di arroccarsi su posizioni troppo rigide senza tuttavia arrendersi all’ineluttabile, inventandosi nuove forme di organizzazione urbana e una sua nuova, originalissima identità.
Ora però è inevitabile che la memoria dei vecchi isolani corra rapida all’altro grande trauma che ha caratterizzato la storia dell’Isola negli anni Sessanta, ovvero i lavori per la stazione delle Varesine che spazzarono via una parte del quartiere costrigendo tantissime famiglie alla fuga. Oggi si costruisce anziché demolire, ma gli effetti di trasformazioni urbane di tale portata faranno certamente sentire i propri effetti.
Riportiamo qui un passo del romanzo di Lino Lecchi:
“Da due anni il comune di Milano stava eseguendo lavori pubblici di enorma portata. Uno scavo profondo parecchi metri partiva dalla zona di Greco e attraversando una vasta zona di Milano raggiungeva l’Isola. Si stavano realizzando anche enormi opere per la costruzione della metropolitana. (…) Secondo il progetto, sarebbe stata costruita una galleria sotterranea che correva collateralmente a via De Castillia e si sarebbe collegata alla stazione delle Varesine. Si trattava del nuovo tratto conduttore ferroviario sotterraneo Greco-Porta Garibaldi. (…)
Queste geniali innovazioni urbane avrebbero smembrato l’Isola in modo irreparabile. Per motivi di sicurezza civile, dovevano essere abbattute le case di buona parte di via De Castillia, quasi tuttta la via Guglielmo Pepe, un tratto di via Borsieri e tutto il lato destro di via Confalonieri. Tutto ciò avrebbe sconvolto per i prossimi dieci anni l’esistenza di molte famiglie, trasformandone le abitudini, modificando i rapporti di lavoro, interrompendo amicizie, conoscenze e creando nuovi problemi per il trasferimento dei domicili. Da questo putiferio che traumatizzò il normale ciclo di vita del pacifico quartiere, tradizionalmente unito da vecchi vincoli di amicizia, si sparse nella dovuta dimensione il panico per l’incognito futuro al quale molte persone sarebbero andate incontro.(…)
In questo programma era previsto anche il trasferimento di due grossi complessi industriali come la Brown Boveri e l’Isaria, che naturalmente avrebbero causato la disoccupazione per molti abitanti dell’Isola che restavano. Anche per molte persone anziane rimaste sole, il trapianto abitativo in altre zone di Milano avrebbe provocato un trauma pscologico. Era gente nata e vissuta all’Isola da sempre, che viveva di ricordi e dell’aiuto insostituibile dei vicini di casa ai quali non potevano rinunciare, data l’impossibilità di essere autosufficienti. Molti di questi vecchi, date le precarie condizioni di salute, finirono alla Bagina e abbreviarono così in modo crudele gli ultimi anni della proporia esistenza. (…)
A titolo compensativo per lo sfratto, l’amministrazione comunale sborsò per i disagiati 75mila lire a persona, con l’aggiunta di 150mila lire per il contributo di trasloco. Nessuna integrazione fu prevista per i danni derivanti dalla cessazione di attività artigianali e commerciali. Nacque anche un problema di carattere logistico, in quanto le abitazioni assegnate ad alcune famiglie erano spesso case popolari dislocate in quartieri satelliti lontani da Milano. Molti nuclei famigliari furono inesorabilmente separati e distanziati in modo considerevole. Fu un colpo mortale inferto ad uno dei più vecchi e popolari quartieri di Milano”.
Lino Lecchi, C’era una volta l’Isola, Editrice Nuovi Autori 1991